Un valore è una concezione del desiderabile, esplicita o implicita, distintiva di un individuo o caratteristica di un gruppo, che influenza l’azione operando una selezione tra i modi, i mezzi e i fini disponibili.
I valori variano storicamente e geograficamente perché non appartengono al mondo assoluto delle idee, ma sono interconnessi alla realtà sociale.
Il contributo di Clyde Kluckhohn
Il sociologo e antropologo statunitense Clyde Kluckhohn, (1905-1960), tra i principali autori in materia, afferma che i valori si distinguono dalle preferenze perché indicano ciò che è desiderabile e non ciò che è desiderato, comportano cioè un dover essere.
In questo senso possiedono una dimensione normativa.
Inoltre, i valori possiedono
- una dimensione affettiva: indicano il desiderabile. Sono interiorizzati dall'individuo e, se trasgrediti, producono in lui senso di colpa;
- una dimensione cognitiva;
- una dimensione selettiva: influenzano nettamente la capacità di scelta e l'orientamento dell’agire sociale.
Il contributo di Talcott Parsons
Il sociologo americano Talcott Parsons, (1902-1979), identifica quattro dilemmi fondamentali (chiamati variabili strutturali) che costituiscono, nelle culture moderne, una sorta di mappa dei valori socialmente riconosciuti:
- Universalismo/particolarismo; l’attore si orienta secondo criteri di carattere generale (la stessa regola vale per tutti) o particolare (ciò che si è disposti a fare per qualcuno non vale per tutti).
- Prestazione/qualità; l'attore valuta l'altro per ciò che è stato in grado di realizzare (ciò che ha fatto) o per ciò che lo caratterizza (ciò che è).
- Neutralità affettiva/affettività; l'attore partecipa a relazioni che includono coinvolgimento emotivo oppure no.
- Specificità/diffusione: l'attore valuta solo determinati aspetti o competenze oppure la totalità della persona.
In generale, il dilemma si ha tra un orientamento self e un orientamento alter.
mercoledì 13 maggio 2009
lunedì 11 maggio 2009
ATTEGGIAMENTI

Gli atteggiamenti sono valutazioni positive o negative di un oggetto, sono composti da:- elementi cognitivi, ossia convinzioni, credenze, pregiudizi e conoscenze sulla facilità di alcuni studi, la prestigiosità di alcune carriere, ecc.- elementi emotivi, anch’essi basati su pregiudizi e stereotipi, come l’interesse verso un settore, o anche la noia o la fatica evocate da determinate professioni- elementi conativi, cioè volontà di azione, modi di intervenire, comportamenti in cui si affronta preferibilmente un situazione o un argomentoL’atteggiamento è quindi una valenza, positiva o negativa, verso un oggetto.
Un atteggiamento favorevole o sfavorevole si forma con la soddisfazione di un bisogno.
I bisogni dipendono dalla personalità, ad esempio la valutazione positiva di un comportamento sportivo, di un hobby, di una moda, può essere dovuta a un bisogno di affiliazione che quella oggetto consente di soddisfare.
Oppure, persone depresse tendono a valutare positivamente le professioni di aiuto perché in questo modo si sentono utili, oppure, negli studenti appena diplomati, la scelta di una facoltà prestigiosa può soddisfare una motivazione di compiacimento verso i genitori.
1. Multilateralità, ossia da quanti elementi, di natura cognitiva, emotiva e comportamentale, compongono l’atteggiamento.
Un atteggiamento è isolato se composto da un solo elemento, ad esempio l’attrazione verso la dalla carriera di avvocato solo perché si guadagna bene.
2. Coerenza tra elementi cognitivi, emotivi e comportamentali, se cioè sono tutti positivi o tutti negativi, a meno che non abbiano subìto un effetto artificiosamente omogeneizzante.
Infatti, ogni elemento discorde rischia di venir forzatamente conformato alla tonalità generale (teoria dissonanza di Festinger).
Ad esempio, è coerente un atteggiamento positivo verso la carriera di medico se si pensa all’aspetto del guadagno, del curare i malati, dell’avere un parente con uno studio già avviato e in cui quindi ci si potrebbe inserire.
Un utile esercizio per valutare l’intensità dei propri atteggiamenti è quindi quello di enumerane tutte le componenti che lo compongono, contarle e valutare quanto sono coerenti tra loro.
Ma enumerando anche le note negative e rendersi consapevoli dello sforzo per espungerle o conformale artificiosamente alla tonalità positiva, pur di preservare un quadro coerente.
3. Interconnessione, ossia quanto sono interconnessi o isolati i vari elementi dell’atteggiamento. Un eccesso di interconnessione è dannoso perché crea un’ideologia, ossia un sistema di credenze molto resistente al cambiamento, anche quando esposto a informazioni contrarie (teoria dell’equilibrio di Heider).
4. Numero dei bisogni soddisfatti e relativa priorità. Un atteggiamento è stabile se soddisfa numerosi bisogni e se tali bisogni sono gerarchicamente importanti per la persona.
Se si ambisce a una professione cui si guadagna bene, l’atteggiamento verso la professione di medico sarà stabile, a meno che non cambi la gerarchia dei bisogni e guadagnare bene non è più prioritario, per cui anche l’atteggiamento verso la carriera di medico non sarà più così positivo. Da cosa dipende il cambiamento degli atteggiamenti
Gli atteggiamenti cambiano quando:- si possiedono informazioni aggiuntive- cambiano le motivazioni del comportamento, ad esempio quella affiliativi: cambiano i gruppi di riferimento o si attenua con la crescita e l’indipendenza il condizionamento esercitato da genitori e cultura locale- erano determinati da una moda passeggera o soddisfacevano pochi bisogni e non prioritari.
Il cambiamento degli atteggiamenti può essere congruente o incongruente- Congruente se si accresce la valenza, per cui un atteggiamento positivo diventa più positivo: gli atteggiamenti hanno la spontanea tendenza a intensificarsi. - Incongruente se c’è una conversione da positivo a negativo.
Questa è una circostanza molto più rara, in genere dovuta ad atteggiamenti motivati da mode, come il voler diventare un cantante perché colpito dal successo di un giovane cantante.
E’ più facile farsi un’opinione che cambiarla. Per cambiarla occorre indebolire le resistenza che la mente oppone per difendere la sua stabilità.
Cambiare opinione significa rompere un equilibrio, cadere nel caos e dover faticosamente ricreare un nuovo equilibrio.
Una volta creata un’opinione, la mente si affezione ad essa e cerca in tutti i modi di preservarla.
Non basta quindi incrementare la quantità di informazioni su un dato argomento per cambiare opinione su quell’argomento, perché la mente non è permeabile a tutte le informazioni, non è predisposta a riceverle tutte indistintamente.
Seleziona solo quelle che confermano l’opinione che già si possedeva su un argomento e non si fa condizionare da quelle contrarie.
E’ più facile quindi cambiare opinione in senso congruente che incongruente: quando si ha un’opinione positiva su un argomento, aumentando le informazioni su quell’argomento, l’opinione tende a rafforzarsi e a diventare più positiva, oppure, se negativa, tende a diventare più negativa.
Spesso ci si irrigidisce su una posizione, ci si fissa su una scelta che si vuole effettuare, ma che spesso non è realistica, non è libera perché frutto di condizionamento o mode transitorie, e sarebbe opportuno cambiarla, ma la mente tenderà a preservarla, quindi anche se ci si espone a informazioni che ne discutono l’attendibilità, che evidenziano come sia inopportuna, la mente si irrigidisce ulteriormente, si oppone cercando argomentazioni a proprio sostegno.
È più facile che si compia una scelta ottimale, che si agisca con equilibrio, se si parte da una posizione di neutralità piuttosto che da una posizione già molto marcata, sia in senso negativo che positivo.
Quando si hanno le idee troppo chiareSi può tendere a fissarsi su una posizione, convincersi che sia quella giusta, e si cercano inconsciamente conferme alla sua validità, cercando anche esempi e dimostrazioni.
Spesso si cade in posizioni rigide e intransigenti anche per la confusione indotta dall’alto numero di opzioni, confusione che rende più seducibili da mode e predispone verso soluzioni-ancoraggio a cui aggrapparsi per uscire da un caos intollerabile.
In altri termini, ad esempio, le posizioni di partenza di tipo marcatamente negativo, che mirano a escludere categoricamente un’ipotesi, possono derivare da una dinamica difensiva dovuta a un bisogno di sicurezza.
In questo caso per cambiare opinione o renderla più realistica occorre riflettere sul proprio bisogno di sicurezza.
In sintesi, la quantità delle informazioni non è sufficiente a cambiare atteggiamento, le informazioni sono filtrate emotivamente e si tende a coglierne gli elementi più suggestivi o quelli in linea con atteggiamenti pre-esistenti.
Quando un altro tenta di spiegare razionalmente a noi stessi l’inopportunità di un atteggiamento, può scatenare atteggiamenti rigidi e difensivi, come accade, ad esempio, quando si tenta di convincere un accanito fumatore a togliersi il vizio perché fa male alla sua salute, oppure quando si spiega a un figlio neodiplomato con argomenti razionali che la scelta di una facoltà letteraria è sconsigliata a causa di una scarsa ricaduta occupazionale.
Ciò tende a scatenare una rabbiosa irrigidimento difensiva che, nel caso del fumatore accanito, porterà ad irritazione e difesa della propria legittimità a "farsi del male", nel caso dello studente con velleità artistiche, si rivelerà attraverso l'idealizzazione della carriera e la tendenza a ribadire di essere portato verso quegli studi e di avere una vocazione e una passione che consentirà di superare gli ostacoli.
Cambia inoltre la sensibilità verso le fonti di informazione: persone più colte tendono ad attribuire più credibilità a quelle scritte, lette su giornali o siti di settore, mentre quelle meno colte tendono a reperirle e ad affidarsi a quelle televisive.
Si è più sensibili anche verso informazioni che la persona cerca attivamente piuttosto quelle passivamente ricevute.
lunedì 27 aprile 2009
La teoria delle Attribuzioni di Heider

Le attribuzioni sono una rete di microteorie che ciascuno di noi adotta nella realtà di tutti i giorni per spiegare la condotta propria e altrui, sono un insieme di procedimenti di investigazione con cui formiamo e alimentiamo tali teorie.
L'idea centrale che porta Heider ad occuparsi delle attribuzioni è che l'analisi ingenua dell'azione…
L'idea centrale che porta Heider ad occuparsi delle attribuzioni è che l'analisi ingenua dell'azione…
"esige la descrizione del nesso causale che contiene non soltanto i fatti direttamente osservabili (…) ma anche la loro connessione con processi e strutture soggiacenti più stabili, (…).
L'idea che l'uomo sia in grado di cogliere la realtà, nonché di prevedere e controllare le sue manifestazioni,riferendo comportamenti od eventi variabili e transeunti a condizioni soggiacenti (le cosiddette caratteristiche disposizionali del suo mondo) relativamente immutabili, è un importante principio su cui si basa la psicologia di senso comune, così come la teoria scientifica in generale.
(…) la struttura causale dell'ambiente, sia come la descrive lo scienziato sia come l'intende l'individuo ingenuo, è tale che noi siamo abitualmente in contatto solamente con quelli che possiamo chiamare i risultati o le manifestazioni di processi e strutture centrali soggiacenti”
L'idea che l'uomo sia in grado di cogliere la realtà, nonché di prevedere e controllare le sue manifestazioni,riferendo comportamenti od eventi variabili e transeunti a condizioni soggiacenti (le cosiddette caratteristiche disposizionali del suo mondo) relativamente immutabili, è un importante principio su cui si basa la psicologia di senso comune, così come la teoria scientifica in generale.
(…) la struttura causale dell'ambiente, sia come la descrive lo scienziato sia come l'intende l'individuo ingenuo, è tale che noi siamo abitualmente in contatto solamente con quelli che possiamo chiamare i risultati o le manifestazioni di processi e strutture centrali soggiacenti”
(1958,113-114)
La teoria dell'attribuzione permette di:
• stabilire le invarianti essenziali del nostro mondo,
• assegnare agli oggetti, eventi e persone, caratteristiche durevoli e qualità tipiche,
• dare significato
• rendere prevedibili
• rendere controllabili eventi (soprattutto sociali),
• agire in modo adeguato, né cieco né casuale
Passaggi per comprendere i meccanismi dell'attribuzione secondo la teoria di Heider:
1. definire la struttura e le componenti dell'azione
2. cercare le cause dell'azione - domande fondamentali
3. leggere tali cause nell'ottica delle esigenze fondamentali dell'equilibrio cognitivo e del bisogno di giustizia
4. cogliere i biases di tale processo (tipo di spiegazione causale e errore fondamentale)
5. identificata la causa si può cercare la fonte della responsabilità ed il livello
La teoria dell'attribuzione permette di:
• stabilire le invarianti essenziali del nostro mondo,
• assegnare agli oggetti, eventi e persone, caratteristiche durevoli e qualità tipiche,
• dare significato
• rendere prevedibili
• rendere controllabili eventi (soprattutto sociali),
• agire in modo adeguato, né cieco né casuale
Passaggi per comprendere i meccanismi dell'attribuzione secondo la teoria di Heider:
1. definire la struttura e le componenti dell'azione
2. cercare le cause dell'azione - domande fondamentali
3. leggere tali cause nell'ottica delle esigenze fondamentali dell'equilibrio cognitivo e del bisogno di giustizia
4. cogliere i biases di tale processo (tipo di spiegazione causale e errore fondamentale)
5. identificata la causa si può cercare la fonte della responsabilità ed il livello
lunedì 6 aprile 2009
TEST DI TURING

Nel 1949, il famoso neurochirurgo Sir Geoffrey Jefferson (1886-1961), nel suo scritto "No Mind for Mechanical Man" (Nessuna mente per l'uomo meccanico), esponeva una serrata critica ad un precedente articolo che riguardava la macchina universale di Turing.
«Fino a quando una macchina non potrà scrivere un sonetto o comporre un concerto suggeriti da emozioni realmente provati, e non per una scelta casuale di simboli, non potremo ammettere che una macchina eguagli il cervello umano; cioé che non solo scriva queste cose, ma che sappia di averle scritte.
E' certo che nessun meccanismo potrebbe provare piacere (e neppure manifestarlo artificialmente, un facile espediente) verso i propri successi e angosce quando gli saltano le valvole, né animarsi davanti alle lusinghe, o rattristarsi per i propri errori, o essere affascinato dal sesso, o incollerirsi o deprimersi quando non può ottenere ciò che desidera».
Queste argomentazioni, apparentemente logiche, erano in realtà facilmente confutabili, e la traccia per farlo era stata indirettamente suggerita nel MacBeth di William Shakespeare...
(SCENA QUARTA)
DUNCAN (re di Scozia): Non c'è arte per leggere nella faccia la costituzione della mente...
Ecco, a dispetto di quanto soeteneva Jafferson, le "emozioni" possono essere manifestate artificialment, e non c'è alcun modo per distinguerle da quelle reali... tralasciando il fatto che vi sono persone che non si compiacciono davanti alle lusinghe, né si rattistano per i propri errori, né soggiacciobo ai piaceri del sesso ed ai desideri materiali.
Alan Turing, in un articolo del 1950 Computing Machinery and Intelligence (Macchine calcolatrici e intelligenza), propose un criterio - oggi noto come "test di Turing" - per determinare se un computer fosse in grado di pensare. Turing era convinto che la sua macchina potesse effettuare qualsiasi operazione logica e, programmata con la necessaria abilità, entro il duemila avrebbe potuto simulare l'intelligenza umana.
Ecco come si dovvrebbe svolgere il test di controllo. Una persona si trova davanti ad un terminale e con la tastiera scrive delle domande e riceve delle risposte. Dall'altro capo del terminale ci sono una macchina ed un operatore umano che forniscono alternativamente le risposte alle domande. Se la persona non è in grado di distinguere quando sta interloquendo con una macchina e quando con un operatore umano, allora la macchina è intelligente.
Finora nessun programma ha superato il test di Turing. Il primo ad aver ottenuto un certo successo, è Eliza, un programma scritto nel 1966 da Joseph Weizenbaum. Eliza è una psicoterapeuta che simula una conversazione tra lei (il medico), e voi (il paziente).
paziente: gli uomini sono tutti uguali
computer: in che senso
paziente: ci fregano sempre in qualche modo
computer: puoi fare un esempio specifico
paziente: un mio amico mi ha fatto venire qui
computer: un tuo amico ti ha fatto venire qui
paziente: dice che sono quasi sempre depressa
computer: mi dispiace sentire che sei depressa
paziente: è vero sono infelice
computer: credi che venire qui ti aiuterà a non essere infelice
paziente: ho bisogno di aiuto, questo è sicuro
computer: cosa intendi come aiuto
paziente: forse potrei riuscire ad andare d'accordo con mia madre
computer: parlami di tua madre
Una conversazione di questo tipo porta a domandarsi se si può realmente ritenere se è il computer che pensa veramente, o piuttosto sono le persone che possono sostenere una conversazione senza bisogno di pensare!
In effetti, il programma Eliza non era molto convincente; tuttavia, ai primordi dei computer domestici molte persone erano convinte che un computer fosse un "cervello" elettronico e quindi non facevano molto caso alla piega bizzara che ben presto delineava la "seduta". D'altra parte, il test di Turing non prevedeva l'ingenuità della persona incaricata di saggiare la macchina: doveva essere un operatore esperto.
Dopo Eliza sono stati realizzati molti programmi per simulare l'intelligenza; sebbene alcuni siano progettati per argomenti ben definiti (per es. teatro di Shakespeare), nessuno è stato in grado di ingannare un giudice esperto.
Queste argomentazioni, apparentemente logiche, erano in realtà facilmente confutabili, e la traccia per farlo era stata indirettamente suggerita nel MacBeth di William Shakespeare...
(SCENA QUARTA)
DUNCAN (re di Scozia): Non c'è arte per leggere nella faccia la costituzione della mente...
Ecco, a dispetto di quanto soeteneva Jafferson, le "emozioni" possono essere manifestate artificialment, e non c'è alcun modo per distinguerle da quelle reali... tralasciando il fatto che vi sono persone che non si compiacciono davanti alle lusinghe, né si rattistano per i propri errori, né soggiacciobo ai piaceri del sesso ed ai desideri materiali.
Alan Turing, in un articolo del 1950 Computing Machinery and Intelligence (Macchine calcolatrici e intelligenza), propose un criterio - oggi noto come "test di Turing" - per determinare se un computer fosse in grado di pensare. Turing era convinto che la sua macchina potesse effettuare qualsiasi operazione logica e, programmata con la necessaria abilità, entro il duemila avrebbe potuto simulare l'intelligenza umana.
Ecco come si dovvrebbe svolgere il test di controllo. Una persona si trova davanti ad un terminale e con la tastiera scrive delle domande e riceve delle risposte. Dall'altro capo del terminale ci sono una macchina ed un operatore umano che forniscono alternativamente le risposte alle domande. Se la persona non è in grado di distinguere quando sta interloquendo con una macchina e quando con un operatore umano, allora la macchina è intelligente.
Finora nessun programma ha superato il test di Turing. Il primo ad aver ottenuto un certo successo, è Eliza, un programma scritto nel 1966 da Joseph Weizenbaum. Eliza è una psicoterapeuta che simula una conversazione tra lei (il medico), e voi (il paziente).
paziente: gli uomini sono tutti uguali
computer: in che senso
paziente: ci fregano sempre in qualche modo
computer: puoi fare un esempio specifico
paziente: un mio amico mi ha fatto venire qui
computer: un tuo amico ti ha fatto venire qui
paziente: dice che sono quasi sempre depressa
computer: mi dispiace sentire che sei depressa
paziente: è vero sono infelice
computer: credi che venire qui ti aiuterà a non essere infelice
paziente: ho bisogno di aiuto, questo è sicuro
computer: cosa intendi come aiuto
paziente: forse potrei riuscire ad andare d'accordo con mia madre
computer: parlami di tua madre
Una conversazione di questo tipo porta a domandarsi se si può realmente ritenere se è il computer che pensa veramente, o piuttosto sono le persone che possono sostenere una conversazione senza bisogno di pensare!
In effetti, il programma Eliza non era molto convincente; tuttavia, ai primordi dei computer domestici molte persone erano convinte che un computer fosse un "cervello" elettronico e quindi non facevano molto caso alla piega bizzara che ben presto delineava la "seduta". D'altra parte, il test di Turing non prevedeva l'ingenuità della persona incaricata di saggiare la macchina: doveva essere un operatore esperto.
Dopo Eliza sono stati realizzati molti programmi per simulare l'intelligenza; sebbene alcuni siano progettati per argomenti ben definiti (per es. teatro di Shakespeare), nessuno è stato in grado di ingannare un giudice esperto.
martedì 24 marzo 2009
lunedì 9 marzo 2009
LE INTELLIGENZE MULTIPLE DI HOWARD GARDNER
Il primo psicologo che ha parlato delle Intelligenze Multiple è stato Howard Gardner in "Frames of mind" pubblicato nel 1983.
Il punto di partenza della sua teoria è la convinzione che sia errato ritenere che ci sia qualcosa chiamata “intelligenza” che possa essere obiettivamente misurata e ricondotta ad un singolo numero, ovvero ad un punteggio “IQ”.
Secondo Gardner, ogni persona è dotata di almeno sette intelligenze ovvero, è intelligente in almeno sette modi diversi.
Ciò significa che alcuni di noi possiedono livelli molto alti in tutte o quasi tutte le intelligenze, mentre altri hanno sviluppato in modo più evidente solo alcune di esse.
Tuttavia è importante sapere che ognuno può sviluppare tutte le diverse intelligenze fino a raggiungere soddisfacenti livelli di competenza.
Gardner sostiene pertanto che tutti possiamo sviluppare le nostre diverse intelligenze se siamo messi nelle condizioni appropriate di incoraggiamento, arricchimento e istruzione.
Inoltre le intelligenze sono strettamente connesse tra di loro e interagiscono in modo molto complesso.
Un esempio molto semplice e significativo lo possiamo trovare nella vita di tutti i giorni nell'atto di cucinare una pietanza.
Ciò mette in moto e in relazione più di una delle nostre intelligenze: leggere la ricetta (intelligenza verbale); calcolare gli ingredienti necessari (intelligenza matematica); tenere conto dei gusti personali (intelligenza intrapersonale) e di quelli altrui (intelligenza interpersonale).
Se ciascuno è cosciente delle proprie intelligenze più forti e di quelle più deboli, può usare le più forti per sviluppare o compensare quelle più deboli.
LE SETTE INTELLIGENZE
. Intelligenza logico/matematica
Capacità di usare i numeri in maniera efficace e di saper ragionare bene. Questa intelligenza include sensibilità verso principi e relazioni, abilità nella valutazione di oggetti concreti o astratti.
. Intelligenza linguistico/verbale
Capacità ad usare le parole in modo efficace, sia oralmente che per iscritto. Questa intelligenza include padronanza nel manipolare la sintassi o la struttura del linguaggio, la fonologia, i suoni, la semantica, e nell'uso pratico della lingua.
. Intelligenza kinestetica
Abilità nell'uso del proprio corpo per esprimere idee e sentimenti e facilità ad usare le proprie mani per produrre o trasformare cose. Questa intelligenza include specifiche abilità fisiche quali la coordinazione, la forza, la flessibilità e la velocità. . Intelligenza visivo/spaziale
Abilità a percepire il mondo visivo/spaziale accuratamente e operare trasformazioni su quelle percezioni. Questa intelligenza implica sensibilità verso il colore, la linea, la forma, lo spazio. Include la capacità di visualizzare e rappresentare idee in modo visivo e spaziale.
. Intelligenza musicale
Capacità di percepire, discriminare, trasformare ed esprimere forme musicali. Capacità di discriminare con precisione altezza dei suoni, timbri e ritmi.
. Intelligenza intrapersonale
Riconoscimento di sé e abilità ad agire adattivamente sulla base di quella conoscenza. Avere una accurata descrizione di sé; coscienza dei propri stati d'animo più profondi, delle intenzioni e dei desideri; capacità per l'autodisciplina, la comprensione di sé, l'autostima. Abilità di incanalare le proprie emozioni in forme socialmente accettabili.
. Intelligenza interpersonale
Abilità di percepire e interpretare gli stati d'animo, le motivazioni, le intenzioni e i sentimenti altrui. Ciò può includere sensibilità verso le espressioni del viso, della voce, dei gesti e abilità nel rispondere agli altri efficacemente e in modo pragmatico.
Il punto di partenza della sua teoria è la convinzione che sia errato ritenere che ci sia qualcosa chiamata “intelligenza” che possa essere obiettivamente misurata e ricondotta ad un singolo numero, ovvero ad un punteggio “IQ”.
Secondo Gardner, ogni persona è dotata di almeno sette intelligenze ovvero, è intelligente in almeno sette modi diversi.
Ciò significa che alcuni di noi possiedono livelli molto alti in tutte o quasi tutte le intelligenze, mentre altri hanno sviluppato in modo più evidente solo alcune di esse.
Tuttavia è importante sapere che ognuno può sviluppare tutte le diverse intelligenze fino a raggiungere soddisfacenti livelli di competenza.
Gardner sostiene pertanto che tutti possiamo sviluppare le nostre diverse intelligenze se siamo messi nelle condizioni appropriate di incoraggiamento, arricchimento e istruzione.
Inoltre le intelligenze sono strettamente connesse tra di loro e interagiscono in modo molto complesso.
Un esempio molto semplice e significativo lo possiamo trovare nella vita di tutti i giorni nell'atto di cucinare una pietanza.
Ciò mette in moto e in relazione più di una delle nostre intelligenze: leggere la ricetta (intelligenza verbale); calcolare gli ingredienti necessari (intelligenza matematica); tenere conto dei gusti personali (intelligenza intrapersonale) e di quelli altrui (intelligenza interpersonale).
Se ciascuno è cosciente delle proprie intelligenze più forti e di quelle più deboli, può usare le più forti per sviluppare o compensare quelle più deboli.
LE SETTE INTELLIGENZE
. Intelligenza logico/matematica
Capacità di usare i numeri in maniera efficace e di saper ragionare bene. Questa intelligenza include sensibilità verso principi e relazioni, abilità nella valutazione di oggetti concreti o astratti.
. Intelligenza linguistico/verbale
Capacità ad usare le parole in modo efficace, sia oralmente che per iscritto. Questa intelligenza include padronanza nel manipolare la sintassi o la struttura del linguaggio, la fonologia, i suoni, la semantica, e nell'uso pratico della lingua.
. Intelligenza kinestetica
Abilità nell'uso del proprio corpo per esprimere idee e sentimenti e facilità ad usare le proprie mani per produrre o trasformare cose. Questa intelligenza include specifiche abilità fisiche quali la coordinazione, la forza, la flessibilità e la velocità. . Intelligenza visivo/spaziale
Abilità a percepire il mondo visivo/spaziale accuratamente e operare trasformazioni su quelle percezioni. Questa intelligenza implica sensibilità verso il colore, la linea, la forma, lo spazio. Include la capacità di visualizzare e rappresentare idee in modo visivo e spaziale.
. Intelligenza musicale
Capacità di percepire, discriminare, trasformare ed esprimere forme musicali. Capacità di discriminare con precisione altezza dei suoni, timbri e ritmi.
. Intelligenza intrapersonale
Riconoscimento di sé e abilità ad agire adattivamente sulla base di quella conoscenza. Avere una accurata descrizione di sé; coscienza dei propri stati d'animo più profondi, delle intenzioni e dei desideri; capacità per l'autodisciplina, la comprensione di sé, l'autostima. Abilità di incanalare le proprie emozioni in forme socialmente accettabili.
. Intelligenza interpersonale
Abilità di percepire e interpretare gli stati d'animo, le motivazioni, le intenzioni e i sentimenti altrui. Ciò può includere sensibilità verso le espressioni del viso, della voce, dei gesti e abilità nel rispondere agli altri efficacemente e in modo pragmatico.
mercoledì 4 febbraio 2009
venerdì 9 gennaio 2009
erving goffman

VITA E OPERE
Nato a Manville nel 1922 si laureò all'università di Chicago in Sociologia e Antropologia sociale.
Nato a Manville nel 1922 si laureò all'università di Chicago in Sociologia e Antropologia sociale.
nel 1962 diventò professore dell'università californiana di Berkeley.
La metodologia di analisi di Goffman, piuttosto che la raccolta statistica di dati, era lo studio etnografico, l'osservazione e la partecipazione; inoltre, le sue teorie fornivano una panoramica ironica della routine dei comportamenti sociali.
La vita quotidiana come rappresentazione, ad esempio, utilizza il teatro come metafora per illustrare come noi mettiamo in scena immagini (di noi stessi) che cerchiamo di offrire alle persone attorno a noi, atteggiamenti per indicare i quali ,Goffman, utilizzò il termine “drammaturgia”.
PENSIERO
Goffman elaborare una “sociologia della vita quotidiana”, dell’interazione diretta faccia a faccia tra gli individui, del comune comportamento e delle sue regole, che lo determinano.
Il presupposto che la sorregge è che continuamente comunichiamo con gli altri.
Gli altri hanno bisogno di informazioni su di noi e noi trasmettiamo immagini di noi stessi, ricevendone altre in cambio.
Goffman è convinto che l'interazione avvenga non a caso ma sempre secondo regole precise.
Egli ricorre ai termini teatrali della drammaturgia, poichè intende ogni indivuo come un attore che riveste un ruolo preciso e ben definito, e un palcoscenico, come il palcoscenico della vita sociale, sul quale avvengono le interazioni tra gli esseri.
I gruppi sociali si dividano in due categorie:
- i gruppi di “performance”
- i gruppi di “audience”.
La vita sociale è, appunto, una rappresentazione che i gruppi sociali mettono in scena di fronte ad altri gruppi.
Inoltre la vita sociale si divide in:
- spazi di palcoscenico: spazi pubblici in cuigli individui inscenano una precisa rappresentazione.
- spazi di retroscena: spazi privati, in cui gli individui non “recitano”.
Naturalmente, il comportamento nel retroscena contraddice il comportamento pubblico.
Secondo Goffman, quindi, la vita sociale si fonda sulla demarcazione dei confini tra palcoscenico e retroscena: infatti il gruppo di audience non deve accedere alle situazioni di retroscena che contraddicono il comportamento pubblico.
Esistono tuttavia luoghi di ribalta, nei quali ci si deve vestire e comportare con certe formalità, e luoghi di retroscena, dove ci si può rilassare.
Inoltre vi sono determinati ruoli che ogni individuo riveste:
- il “delatore” è chi finge presso gli attori di essere un membro del gruppo, avendo così accesso al retroscena e riportando al pubblico informazioni riservate.
- Il “compare” è chi si accorda segretamente con gli attori e si mescola tra il pubblico per orientarlo.
- Lo “spettatore puro” è un professionista riconosciuto come spettatore qualificato.
- L’“intermediario” appartiene a due compagnie che sono l’una il pubblico dell’altra e può mettere in atto giochi di triade.
- La “non persona” è chi, benché presente, non fa parte della rappresentazione e viene ignorata.
per Goffman, inoltre, gli individui, più o meno consapevolmente, inviano senza sosta segnali (il modo di vestire, di parlare, di gesticolare, ecc) che vengono recepiti da altri come informazioni utili per coordinare il proprio agire.
Sulla base di questi segnali, gli individui sviluppano una “definizione della situazione” che consente loro di orientare il loro agire.
In particolare, la presentazione del “self” segue una specifica dinamica, scandita nei seguenti punti:
- “front” = “facciata”:Nel “front” rientrano tutte quelle cose (vestiti, mobili, ecc) che contribuiscono a creare la nostra “facciata”, ovvero la nostra superficie dinanzi agli altri: in definitiva, il “front” è l’immagine superficiale di noi che trasmettiamo agli altri.
- “drammatic realisation”: si tratta dell’impiego di espedienti drammaturgici, impiego che è tanto maggiore quanto più è difficoltosa la costruzione di un determinato “front”.
- “idealisation”, che è lo sforzo per presentarsi come qualcuno che abbia interiorizzato certi valori riconosciuti dalla comunità.
- “mantenimento del controllo espressivo”: alla base v’è l’idea che alla definizione della situazione contribuiscano in maniera decisiva anche piccoli segni, con la conseguenza che l’attore sociale deve controllare e coordinare il proprio comportamento (tipo esempio è il “self control”).
- “mistification”, la mistificazione: specie le persone di alto rango, cercano di mantenere le distanze dagli altri e di tenere in piedi una certa definizione della situazione.
- “autenticità”: ad avviso di Goffman, le persone cercano di apparire autentiche, senza far sorgere l’impressione che il loro comportamento sia frutto di artificiosità. È, in sostanza, il concetto di “sprezzatura” (l’arte di nascondere l’arte) quale era stato elaborato da Baldesar Castiglione.
- “frame”: l’idea è che gli individui impieghino schemi interpretativi al fine di inquadrare ciò che avviene intorno a loro.
Tutte le forme d’interazione fanno ricorso al “framing”.
Infine, il concetto di “primary framework” all’interno di un gruppo sociale designa un elemento centrale della cultura di questo gruppo: l’idea di Goffman è che ogni gruppo abbia un suo codice specifico che lo caratterizza e lo distingue dagli altri (ad esempio, nel gruppo dei barboni è il rifiuto sistematico del lavoro).
I “frames”, nota Goffman, possono venir trasformati attraverso il “keying”, quel procedimento in virtù del quale certe attività possono venir definite in modi diversi (ad esempio una situazione che può essere definita sia come sport sia come lavoro); si tratta di situazioni che mutano al mutar della prospettiva assunta.
Le teorie di Goffman sono tutt'ora prese come modello da numerosi studiosi, anche per il carattere sistematico con cui egli analizza dettagliatamente le interazioni sociali, e i ruoli che ogni individuo assume in una determinata condizione.
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