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brescia, Italy
studentesse problematiche, future paracadutiste, amanti del sabato sera su 2 ruote; frequentanti il terzo anno del LICEO, umanstico di brescia, veronica gambara; il quale è simile al classico, ma senza greco, ma in PIU' c'è francese, scienze sociali, diritto, biologia, fisica e c'è moolta più matematica!! altro che arnaldo light...!! parola di lupetto!! auuuuuuuuuuuuuuuuh!!!

lunedì 11 febbraio 2008

la maschera

LA TRADIZIONE DELLA MASCHERA TEATRALE...

...& NON







Sulla mia parete è appesa una xilografia giapponese

La maschera di un demone cattivo, dipinta con la lacca d'oro.


Pieno di compassione vedo


le gonfiate vene frontali, segno di


quanto è faticoso essere cattivo.


di Bertold Brecht


Tutto cominciò con il desiderio di trasformazione e metamorfosi dei popoli antichi. Per nascondere l’identità umana e renderla irriconoscibile, per liberarsi della presenza fisica e corporea e mettersi così in grado di comunicare con potenze sconosciute e trascendenti, i popoli antichi sentivano di dover cancellare il proprio aspetto tramite l’uso del travestimento e della maschera.


Poiché si pensava che lo spirito risiedesse nel volto, i popoli primitivi si mettevano un volto artificiale e con esso accoglievano un altro spirito.


L’ispirazione iniziale fu data dal mondo animale e queste figure nella storia non persero mai il loro potere evocativo, spesso nelle tribù erano indossate dal sacerdote-sciamano ed erano un importantissimo ingrediente dell’ esorcismo rituale.


Le maschere animalesche ebbero anche un ruolo primario nelle feste in onore di Dioniso, da cui emerse poi tutto il teatro greco.


La danza, presso questi popoli, raramente si faceva senza la maschera: accanto alla manifestazione libera del ritmo della natura, in cui consisteva la danza vera e propria, si cercava di dare forma con la maschera a visualizzazioni ed intuizioni misteriose, di tendere oltre la quotidianeità verso qualcosa di oscuro e ignoto che si avvertiva solo vagamente.


Poteri mistici e magici possedevano coloro che costruivano maschere, spesso si diceva che fossero ispirati dal demonio.


Commenta il Sorell: “la maschera è la più perfetta visualizzazione della nostra duplice esistenza, del giorno e della notte, della veglia e del sonno, della vita e della morte, il volto vivo e il volto rigido.


L’aspetto sostanzialmente immobile e immutabile della maschera – il volto che vive senza vivere- indica che una delle sue connotazioni più forti e originali è sempre stata la morte.” La morte e il diavolo erano mascherati allegoricamente.


E in tutti i banchetti, in tutti i trionfi , in tutte le grandi festività di massa non mancavano queste figure.


Molto più tardi si aggiunse l’elemento del gioco, in cui cade la distinzione tra il credere e il far credere.


Diventò di moda per le strade, nelle sale da ballo, in ogni festa fino alla fine della Commedia dell’arte con le sue maschere dei tipi fissi, ognuno perfettamente riconoscibile. Se si voleva essere in incognito si indossava una maschera: Romeo potè entrare in casa Capuleti e danzare con Giulietta e Tebaldo non poteva sfidarlo finchè restava mascherato. Solo nel ‘700 con Goldoni abbiamo la difesa delle “commedie senza più maschera, naturali ed efficaci….oggi si vuole che l’attore abbia dell’anima….bisogna sostituire le farse con delle commedie”.


Nel ‘900, con il cubismo e le maschere del Congo di Picasso, Hugo Ball e il dadaismo, la danza espressionista di Mary Wigman ecc, si ha un ritorno dell’importanza della maschera, soprattutto in ambito figurativo, che alcuni vedono connesso alle catastrofi sconvolgenti di questo secolo e al senso di morte che le due guerre avevano disseminato nuovamente negli animi e nella cultura.


Ma il latino ce lo insegna: persona infatti voleva dire maschera.


Pirandello parte da qui per sostenere una verità ormai accettata da tutti cioè che ognuno di noi si serve di varie maschere per interagire con se stesso e con gli altri, secondo le situazioni.


E quando la maschera che ci siamo costruiti o che ci hanno cucito addosso esplode, non ci resta altro che confrontarsi con la follia.


Tutto questo ha presente “L’ombra di Peter” quando in OUTSIDERS TRACKS viene ripreso l’uso della maschera, intesa nella sua funzione primigenia di inganno demoniaco e simbolo di ipocrisia (dobbiamo dire che i primi attori greci erano chiamati hypocrités).


C’è stato un percorso infatti che ha coinvolto tutta la compagnia sia come attori e regista sia come persone, in cui abbiamo posato l’attenzione sull’ipocrisia del recitare in teatro come nella vita, sui pericoli della falsità e dell'’autoinganno, sulla vigliaccheria del tradimento, sulla crisi di spersonalizzazione cui va incontro l’attore che si immedesima in molti personaggi e infine sulla ricerca da parte di ognuno della sua propria identità come singolo e all’interno del gruppo.


Questa è una tematica viva su cui, più o meno consapevolmente, lavora con passione e volontà di migliorarsi “L’ombra di Peter”.


Ogni attore nelle scene iniziali di OUTSIDERS TRACKS ha già un trucco facciale che costituisce una maschera anch’esso, che va a sommarsi con le maschere bianche vere e proprie indossate verso la fine della performance, in una sovrapposizione di trasfigurazioni che crea un effetto tipo scatole cinesi. Il trucco si sfalda e si scioglie alla Dalì; dietro ogni maschera ce n’è un’altra e un’altra ancora fino ad arrivare forse al niente.


Le maschere vengono prima indossate di fronte al pubblico, che per antonomasia è colui che giudica il lavoro dell’attore, che, non scordiamocelo, per quanto sia naturalistica e autentica la sua performance, è sempre in teatro che sta recitando.


Questa linea di volti-non volti, tutti identici tra loro, che unificano i personaggi in una sola identità, ha più connotazioni. E’ una provocazione contro il pericolo della standardizzazione e della forzata appartenenza al gruppo che appiattisce le esistenze individuali in favore di una personalità di massa, ma è anche il momento comune di uguaglianza e di livellamento (non si scordi che “la grande livellatrice” è la morte). Tante statue di fronte alla platea la osservano, per poi iniziare a scambiarsi queste maschere e con esse le proprie identità, in un gioco di invidie e curiosità, cercando quella che più si confà alla persona, osservandole e toccandole attentamente.


Con la maschera si va tra il pubblico, per poi toglierla e indossarla sulla nuca a creare così una doppia identità, un Giano bifronte che continua ad aggirarsi tra la gente sempre più velocemente fino all'’uccisione dell'’unico senza maschera, il vero uomo o l'’unica divinità.


Ipocrisia?


Falsità?


Tradimento?


Queste le tematiche affrontate.


I rimandi più o meno simbolici sono molti e complessi e viene lasciato spazio per la libertà interpretativa di ciascun spettatore, che viene così chiamato in causa.


La parte più interessante rimane comunque il lavoro degli attori e del regista, con esiti spesso diversi per ognuno: chi cerca di trovare la sua maschera, quella che gli appartiene e lo caratterizza, chi cerca di togliersela per sempre, e rimanere nudo di fronte alla sua pazzia.


Ognuno ci riesce a suo modo: per questo OUTSIDERS TRACKS è insieme un punto d’arrivo e un punto di partenza.


Rimane l’immagine iniziale: sei maschere bianche appese ad un filo sottile e da questo unite, che guardano verso il pubblico e aspettano coloro che le indosseranno.


Vive anch’esse, nel silenzio del palco vuoto.


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